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Nel bosco delle cose

Nel cuore della campagna emiliana, nei pressi di Parma, sorge il Museo Guatelli. Accoglie più di 60.000 oggetti che raccontano la storia di chi li ha usati e di chi li ha raccolti. Descriverlo è impossibile: ce ne parla Mario Turci, che lo dirige da anni con mano sapiente. Ma che cosa trova rappresentanza e rappresentazione nel museo intitolato al maestro Ettore Guatelli?

Riflessioni di Mario Turci, direttore del Museo Guatelli, raccolte da Maria Gregorio

Ciò che appare evidente nel Museo è l'interesse di Ettore Guatelli per il mondo degli ultimi, all'interno del quale sta prevalentemente il contadino. Un mondo che trova espressione nella quotidianità e che negli oggetti trova le proprie orme, le testimonianze. Il progetto di Ettore non è mai stato quello di creare un museo etnografico per rappresentare meramente il lavoro dei contadini, il modo in cui i contadini vivevano: Ettore ha voluto raccogliere storie di vita capaci di presentare la sostanza e lo spessore dell'esistenza. Potremmo dire che il Museo Guatelli è il museo delle esistenze.

 

MA COME POSSONO ESSERE RACCONTATE LE VITE? Ettore aveva in cuore di diventare scrittore, voleva scrivere, e scrive. E trova sostanzialmente due forme di scrittura: la forma consueta, che consiste nel produrre testi, raccogliere interviste. L'altra è il museo: sul foglio Ettore usa la parola e la frase, nel museo usa l'oggetto e la composizione. Il Museo Guatelli è una composizione continua. Quelle che per noi antropologi sono scritture etnografiche, agli occhi di chi si occupa d'arte appaiono quali installazioni, composizioni.

 

ETTORE USA GLI OGGETTI COME PAROLE E LE COMPOSIZIONI COME FRASI, perché il suo sguardo vede gli oggetti come portatori di storie. Così, nel suo museo, gli oggetti diventano densi non perché sono belli o curiosi, ma perché sono testimoni di vite. Per questo lui stesso parla del suo museo come "museo dell'ovvio". In genere, al museo si va per stupirsi, per incontrare quello che è eclatante o artistico... Diceva "tutti i cojon j'en bon ad metter in mostra il còsi eccezionali", e nel suo museo trovi le cose di tutti i giorni, le meraviglie dell'ovvio. L'obiettivo di stupire è ben presente, ma per far comprendere che tutte le storie degli uomini sono storie importanti.

Ettore rivolge una estrema cura anche a particolari aspetti del quotidiano, quelli che possiamo definire del piccolo ingegno, il design del popolo, l'applicazione delle piccole scienze pratiche nella soluzione di problemi quotidiani. L'altro filone, trasversale, è legato al riuso, agli oggetti che diventano "altri", che potremmo chiamare "oggetti migranti". Per esempio, la custodia di legno per fisarmonica che diventa una gabbia per piccioni, utilizzando il manico e aggiungendo due retine. Oppure l'elmetto che diventa comignolo o, ancora, il barattolo che diventa la base di un fiasco, se ben tagliato. Questo avvicina Ettore a Bruno Munari, anche se non sono mai riusciti a incontrarsi. Ma tanti e tanti altri ancora sono stati o potevano essere gli incontri. Dico spesso che quando entro nel museo, mi par di sentire un grande vocío, le voci della folla di persone che vive dietro e dentro agli oggetti, la molteplicità delle vite, degli aspetti, dei colori, delle forme... Non so in che misura Ettore fosse consapevole, forse non fino in fondo, che la sua opera è un'opera descrittiva delle umanità, che non sono fatte né dai condottieri né dai grandi capi di Stato, lo ripeteva sempre, bensì dalla vita di tutti i giorni, che è sofferenza, e anche, perché no?, genialità ed erotismo. Come in quel piccolo capolavoro che è il suo racconto dell'odissea vissuta dal profugo polacco Boris.

 

PERSONALMENTE, IL MIO TRAVAGLIO, DAL 2003 A OGGI, È STATO, NEI CONFRONTI DEL MUSEO, UNA SORTA DI TRAVAGLIO ESISTENZIALE: innanzitutto perché ho dovuto prendere una certa distanza dalla presenza di Ettore, elaborare il lutto della sua assenza. Quando tu arrivi in un posto e vedi l'opera di un uomo, l'opera in cui quell'uomo ha investito tutta la sua vita, senti che devi andare cauto, molto cauto, e ti domandi continuamente "Ma lui avrebbe fatto così? Gradirebbe?".

Questa elaborazione, che non è solo mia, in qualche misura ci ha frenati nel fare.

Adesso si sta sciogliendo, siamo a metà del percorso, e questa stessa elaborazione ci rende più liberi nel produrre atti espositivi che non siano meramente etnografici, bensì legati alla forma di scrittura di Ettore. Così, per esempio, nel film girato per far conoscere la nuova installazione "Cortina Varsavia", che celebra e descrive Boris e la sua storia. Qui abbiamo voluto giocare con gli oggetti di Ettore senza però toccare - non lo faremo mai - quello che Ettore ha lasciato per noi. Si tratta di elaborare nuove forme espositive, ovviamente con la nostra sensibilità, per quello che siamo noi, però usando il linguaggio che Ettore ci propone.

E, guarda caso, proprio nell'esperienza di "Cortina Varsavia" abbiamo creato il "muro di valigie", il muro da cui parte quella lunga fila di scarpe... Che non parla del ciabattino, non racconta la storia del calzolaio né l'evoluzione della scarpa: è una umanità di scarpe dove, se trovi due scarpe risuolate in una certa maniera, è perché quello era il modo usato da quella persona per allungare la scarpa che doveva passare dal figlio più grande al più piccolo, e il più piccolo aveva piedi più lunghi del grande. È la parete delle umanità che passa attraverso le scarpe.

 

MI PIACE SOTTOLINEARE CHE IL MUSEO EMOZIONA TUTTI, TALVOLTA CREANDO PERSINO ANSIA O DISAGIO, MA RIESCE A PARLARE A TUTTE LE GENERAZIONI perché, volutamente o involontariamente, dà la possibilità a tutti di aprire la mente sulle cose, sugli oggetti di ogni giorno, gli stessi che ciascuno di noi ha toccato o visto nella propria vita: così, per esempio, i giocattoli fatti con i barattoli o con i pezzi di legno, che fanno impazzire i visitatori più piccoli. In particolare entrando in due stanze, la stanza dei vetri e la stanza delle latte, tutti provano un'emozione fortissima. Chissà, forse perché - non sempre lo sanno - quella era la camera da letto dei genitori, dove è nato Ettore.

L'emozione è produttiva, e per questo l'incontro con il Museo Guatelli produce relazioni, parole, scambi, nuovi incontri. Potrei citare mille episodi. I musei, lo diciamo sempre, devono essere occasioni di incontro, e ci facciamo in quattro per realizzare questo obiettivo: nel Museo Guatelli bisogna soltanto seguire, essere disponibili ad ascoltare. Quel che più mi emoziona, come direttore, è che tutto questo non è teoria: queste cose al Museo Guatelli accadono!

Partendo di qui si può ritornare al concetto di bene culturale. Ricordo Fredi Drugman quando diceva che tutti i nostri processi progettuali o analitici hanno come obiettivo il riconoscimento del bene culturale in quanto bene collettivo, della collettività non come insieme di persone, ma come insieme di umanità. E le umanità sono fatte di relazioni, del riconoscimento delle identità. Io posso dire che riconosco la tua identità perché riconosco che hai dei diritti, ma il mio vero riconoscimento è quando mi interesso a te, alla tua storia. In questo c'è vicinanza, e per questo Ettore insiste sulle storie.

Prendiamo l'esempio di una zappa: Ettore ci parla della zappa, fa poetica sulla zappa, ci dice che era fatta così perché era usata per un certo lavoro, e che qui la fanno in una maniera, là in un'altra... Poi aggiunge: "C'è Luigi che mi ha detto queste cose!". Chi è Luigi? Luigi è un essere umano, quindi vive in una famiglia, questa zappa l'ha comprata, ha fatto dei sacrifici, poi una notte gliel'hanno rubata, e così via... Così la zappa comincia a diventare l'orma di un'esistenza, perché a noi interessa Luigi, non la zappa.

O, meglio, ci interessa la zappa perché è di Luigi. Diversamente, i nostri musei etnografici diventano musei di storia della tecnologia, come avviene in tanti musei della cosiddetta cultura contadina. Sono musei della prova, della prova storica, anche belli, ma il museo antropologico deve essere museo della testimonianza. Dobbiamo essere sempre più chiari su questa distinzione.

Al centro, qui, è la relazione. I miei studenti, per esempio, qui capiscono che non possono dare significato a una casa se non la leggono come contenitore di una famiglia, ossia di un gruppo denotato da relazioni. Questo è lo sguardo antropologico, è lo sguardo delle cose proprio del Museo Guatelli, che rinvia sempre alle umanità. Agli studenti dico "È una grande provocazione!", perché ti provoca su tutte le questioni della museografia, in modo particolare sulle parole chiave: museo/ forum, museo/ luogo di incontro, interattività, emozione...

 

IL MUSEO GUATELLI NON È UN MONUMENTO ALLA MEMORIA. La memoria è nella testimonianza, e in questo senso l'obiettivo sostanziale del museo è educativo. Ettore è un maestro e in tutta la sua opera si avverte la tensione a far riflettere. Ma, per indurre alla riflessione, la memoria deve essere una memoria utile, perché deve farci pensare all'esistente e quindi alla nostra esistenza. Per questo al Museo Guatelli non è possibile una mera didattica museale del cosiddetto "dialogo interculturale", che vuole i musei quali luoghi di incontro tra culture diverse: a noi non piace dire "interculturale", noi diciamo "interpersonale", perché la persona non è portatrice di una cultura, ma di un'esperienza personale, individuale all'interno di una cultura. Le persone di altri paesi, che verranno al museo, guarderanno gli oggetti e racconteranno le loro storie sugli oggetti, ci parleranno dei loro oggetti attraverso le loro storie. La libertà è anche in questo, nel fatto che in un museo così sfaccettato ciascuno trovi sempre qualcosa: quello che vuole...

 

Scrive il grande artista americano Joseph Cornell: "... essere immerso in un mondo di totale felicità in cui ogni cosa insignificante si impregna di significato..."

 

Il Museo Ettore Guatelli

Via Nazionale, 130 43044 Ozzano Taro di Collecchio (PR)

Tel. 0521 333601 - Fax 0521 332098

Il sito, ricchissimo di immagini, voci e notizie (anche sulle splendide pubblicazioni), consente la visita virtuale:

www.museoguatelli.it

Irrinunciabile, quella reale.

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