Ottimizzare i metodi di approvvigionamento ed uso di energia da parte delle cartiere è una delle vie di accesso al papermaking sostenibile ed un obiettivo dell'industria globale della carta ormai vicini al grande summit sudafricano sulla sostenibilità, in questo articolo diamo uno sguardo ad alcuni aspetti di questa problematica.
Lestie Webb, Envirocell
Questo titolo è contraddittorio nel senso che la maggior parte della carta contiene circa il 40/45% di carbonio, eccetto le carte contenenti un'elevata quantità di argilla, nelle quali il contenuto di carbonio si riduce notevolmente (fino al 25%). Non si può fare molto finché le materie prime prevalenti saranno la cellulosa (e molti altri composti organici) e il carbonato di calcio.
Comunque quando si parla di carbonio, si intende generalmente il carbonio contenuto nelle fonti di energia utilizzate nel processo di produzione della carta piuttosto che nella carta stessa. Questo interesse per il carbonio certamente nasce dalla questione, molto attuale, del riscaldamento terrestre o, più in generale, del cambiamento climatico, provocato (si crede) dalla accumulazione di vari gas nell'atmosfera terrestre.
La nostra comprensione scientifica dei fenomeni che determinano il cambiamento climatico è dovuta al lavoro dell'Intergovermental Panel on Climate Change (IPCC), istituito nel 1988 dal World Meteorological Office (centro meteorologico mondiale) e dall'Environment Programme programma ambientale) delle Nazioni Unite. Il loro terzo rapporto, pubblicato all'inizio dello scorso anno, dimostra come il riscaldamento terrestre degli ultimi 50 anni sia dovuto all'attività umana. Ogni aumento di temperatura della terra può essere attribuito a fattori naturali, come variazioni dell'irradiazione solare e attività vulcanica, ma la prova ottenuta indica i fattori umani, come l'aumento di emissione di gas da serra, quali maggiormente significativi. Il dibattito sul clima produce inevitabilmente una gran quantità di numeri, generalmente o particolarmente grandi (le emissioni) o particolarmente piccoli (la concentrazione di gas atmosferici), alcuni di questi raccolti nella figura 1.
ALL'INDUSTRIA DELLA CARTA È ATTRIBUITO IL 4% DEL CONSUMO DELL'ENERGIA TERRESTRE, MA SOLTANTO L'1,2 % DELLE EMISSIONI DI DIOSSIDO DI CARBONIO DERIVATE DA CARBURANTE FOSSILE (CO2), a causa del largo uso di legno per la generazione di energia. Il diossido di carbonio derivante dalla combustione di una biomassa come il legno non è considerato nelle previsioni del riscaldamento terrestre, poiché questa quantità di carbonio dovrebbe essere inclusa nella nuova biomassa che crescerà per sostituire la vecchia (a condizione che sia applicato lo sviluppo sostenibile delle foreste, altro problema ambientale chiave per l'industria cartaria). Secondo la IPCC, il fattore maggiormente responsabile del riscaldamento terrestre è l'aumento della concentrazione di diossido di carbonio provocata dalla combustione di carburante fossile; questo ha elevato la concentrazione di CO2 a circa 370 ppmv (parti per milione di volume), contro una concentrazione stabile di 280 ppmv presente nell'atmosfera nelle centinaia di anni che hanno preceduto l'inizio della rivoluzione industriale alla metà del 1800. Il modo principale per limitare l'emissione di anidride carbonica e di altri gas è attenersi al Protocollo di Kyoto, che ebbe origine nel Framework Convention delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che ebbe luogo al summit mondiale del 1992 in Brasile.
Comunque la convenzione non ottenne altro scopo se non quello di chiedere ai paesi sviluppati di far rientrare entro il 2000 le loro emissioni di gas da serra nei limiti del 1990. Per quanto riguarda gli obiettivi oltre il 2000, il Protocollo di Kyoto (vedi riassunto nel riquadro 1) fu redatto nel 1997 ma tralasciò molti aspetti pratici, in particolare la definizione dei giacimenti di carbonio accettabili e dei cosiddetti meccanismi flessibili, per affrontarli nuovamente in seguito.
Per assolvere a questo compito furono necessari molti altri incontri e molti viaggi intorno al mondo da parte dei partecipanti e delle orde di giornalisti, e finalmente fu risolto alla fine del 2001 per la soddisfazione di tutti eccetto del maggior produttore di CO2, gli USA. Questo fatto, insieme a concessioni fatte ad alcuni paesi ed esitazioni da parte di altri, mette a rischio sia la credibilità che la possibilità di riuscita del protocollo. Ciò nonostante altri paesi, come il blocco EU, stanno facendo pressione per ratificare il protocollo in modo che possa entrare in vigore prima del prossimo evento mondiale, la conferenza del Rio + 10 sullo Sviluppo Sostenibile che si terrà a Johannesburg il prossimo settembre.
LA QUESTIONE PER L'INDUSTRIA CARTARIA È COME POTER CONCILIARE I PROCEDIMENTI NECESSARI ALLA RIDUZIONE DI EMISSIONI DI DIOSSIDO DI CARBONIO CON LE ALTRE INIZIATIVE AMBIENTALI ENTRO UNA STRUTTURA SOSTENIBILE. Per la maggior parte delle industrie manifatturiere, ridurre l'emissione di diossido di carbonio significa ottimizzare l'approvvigionamento e la gestione di energia durante tutto il ciclo di vita dei prodotti, cosa che richiede lo spostamento della gestione di energia nelle seguenti direzioni:
-Massimizzare l'uso di tutte le forme di energia rinnovabile come biomassa e energia idrica
-Passare ad una generazione calore/potenza (CHP) quando possibile
-Spostarsi dai carburanti fossili con alto contenuto di carbonio per unità di energia (per esempio il carbone) a quelli con minore densità di carbonio
-Utilizzare edifici, processi, trasporti efficienti dal punto di vista energetico
Il primo punto rappresenta il campo in cui l'industria della carta può dare un contributo decisivo massimizzando l'uso dei residui di legno dalle attività forestali, dagli scarti del pulping e del papermaking, e dalle carte usate non riciclabili. Oggi le cartiere tendono ad essere sempre meno integrate con la produzione di polpa vergine, quindi le possibilità di sfruttare i residui di legno sono piuttosto scarse. D'altra parte per i prodotti da tissue e da towel è sempre più utilizzata la carta riciclata, e questo comporta la produzione di una grande quantità di fanghi e scarti nella normale fase di disinchiostrazione. La massa degli scarti può costituire il 30-35% della carta riciclata quindi, supponendo che circa il 30% dei circa 20 milioni di tonnellate di tissue/towel prodotti ogni anno è ottenuto da fibre riciclate, il settore tissue produce in tutto qualcosa come 3 milioni di tonnellate di scarti solidi di disinchiostrazione all'anno. Molte cartiere (ad esempio gli stabilimenti tissue di SCA a Stembert in Belgio o a Mennheim in Germania) sfruttano la parte di fibra combustibile in inceneritori interni allo stabilimento attrezzati per il recupero di energia.
Un'altra cartiera SCA da tissue (a Edet in Svezia) ha adottato un modo originale di riutilizzare energia, dissotterrando residui che erano stati depositati in una valle vicina per anni e depositandoli con i residui recenti in un nuovo impianto per la generazione del vapore. Il problema di questa tecnica è che lascia ancora una notevole quantità di cenere minerale (circa 1,5 milioni di tonnellate all'anno dagli stabilimenti tissue) da smaltire o da riutilizzare in qualche modo. A questo ha trovato soluzione un'altra cartiera SCA (di Tilburg, Paesi Bassi), che impiega i residui per la produzione di cemento o mattoni. In questo modo il contenuto fibroso delle rimanenze va a sostituire parte del carburante fossile usato nel procedimento, mentre la parte minerale (argilla e carbonato di calcio) viene utilmente inclusa nel prodotto.
GLI STABILIMENTI CHP SONO IN GRADO DI PRODURRE ELETTRICITÀ CON UN'EFFICIENZA COMPLESSIVA DEL CARBURANTE SUPERIORE ALL'80% CONTRO UN'EFFICIENZA DEL 40% GARANTITA DAI TRADIZIONALI IMPIANTI DI PRODUZIONE ELETTRICA. L'industria del pulp and paper ha da sempre fatto ampio ricorso al CHP poiché il rapporto tra vapore ed energia necessario alle cartiere corrisponde alla produzione di energia della maggior parte degli stabilimenti CHP. Le informazioni fornite da un gruppo di varie associazioni nazionali di paper, in occasione di uno degli incontri sul Protocollo di Kyoto, lo mostrano chiaramente (figura 2), in particolare per quanto riguarda le industrie di Giappone e Stati Uniti. Questo ha mostrato anche l'importanza delle fonti di energia rinnovabile, non tanto in Giappone (dove molto legno è importato) ma in Europa dove c'è un gran consumo, almeno se paragonato alla posizione dell'Europa rispetto al CHP. Stando al Profilo sull'Energia del 2001 del CEPI, oltre il 90% dell'elettricità generata internamente dalle cartiere europee è co-generata con altri paesi come Spagna e Svezia, nei quali questo livello ha già raggiunto il 100%. La scelta del carburante fossile per la produzione in sede di vapore o elettricità è subordinata a numerosi fattori - come accade per ogni materia prima - come la disponibilità, la continuità di fornitura ed il prezzo. Nonostante ogni impianto di combustione sia progettato per bruciare indifferentemente qualsiasi carburante, molti impianti usano o carburanti solidi (carbone, torba) o liquidi/gassosi. Le industrie cartarie nazionali variano molto nella misura delle risorse di carburante; il gas ad esempio rappresenta solo il 10% del carburante fossile usato in Giappone mentre addirittura il 90% del carburante usato in Italia.
Oggi è ormai noto che il gas naturale è il miglior carburante dal punto di vista ambientale poiché ha un contenuto di energia per unità di emissioni di CO2 pari al doppio di quello del carbone puro e circa il 50% in più rispetto al petrolio. È anche il carburante più comune per i moderni impianti CHP, quindi il miglior tipo di paper mill con un impianto CHP a gas che fornisca tutta l'energia necessaria, produce meno del 20% di emissioni di CO2 del paper mill di peggior qualità che sfrutti il carbone sia per la produzione di vapore sul posto che per la generazione di elettricità non CHP fuori sede; un'enorme differenza d'impatto ambientale.
OGGI QUANDO SI PARLA DI GAS CARBURANTE SI FA SEMPRE RIFERIMENTO AL METANO (GAS NATURALE), MA IL GAS DEL FUTURO È UNA SOSTANZA BEN PIÙ SEMPLICE; L'IDROGENO. I suoi vantaggi sono l'alto contenuto di energia per unità di peso (circa 2 volte quello del metano) ed il contenuto nullo di carbonio, ma lo svantaggio è rappresentato dalla bassissima densità (circa il 10% di quella del metano) che implica che per contenerlo in volumi ragionevoli è necessaria una pressione molto elevata. Oltre ad essere carburato per creare calore, l'idrogeno può anche essere combinato con l'ossigeno in cellule di carburante per produrre direttamente elettricità. Al momento è molto costoso ma è già in uso sperimentale sulle auto. Comunque il punto per utilizzare l'idrogeno in modo sostenibile è riuscire a produrlo senza uso di carburante fossile e questo significa utilizzare energia rinnovabile per generarlo elettrochimicamente dall'acqua. In questo momento l'isola di Islay, in Scozia, sta discutendo sulla proposta di diventare la prima comunità "a idrogeno", sfruttando l'elettricità generata dalle onde come risorsa energetica primaria.
Questo non ha niente a che fare con il papermaking, ma c'è un tale patrimonio forestale in Scozia. Questo ci riporta alla realtà del papermaking e alla soluzione definitiva per le cartiere al problema carbonio, cioè scegliere processi ed impianti che prima di tutto minimizzino l'uso di energia. Questo è stato un aspetto centrale dell'attività di tutte le industrie successivamente alla crisi del petrolio degli anni '70, ma ha sempre suscitato attenzione per una questione di risparmio economico più che di rispetto ambientale. Indipendentemente dal tipo di carta prodotto, il maggior consumo di energia in cartiera è dovuto alla produzione di vapore per l'essiccamento finale del velo di carta, quindi lo sviluppo di tecniche di pressa più efficienti è stata una priorità. La tecnica più diffusa per questo fu la shoe-press, che fu inizialmente sviluppata da Beloit all'inizio degli anni '70. Funziona estendendo la zona di contatto tra velo e pressa ed è stato ampiamente sfruttato negli ultimi 20 anni, soprattutto per alcuni tipi di carta da packaging. Certamente ogni incremento della pressatura tende ad aumentare la densità del foglio quindi l'uso di questa tecnologia nel tissue non è facile.
QUESTA DIFFICOLTÀ É STATA COMUNQUE SUPERATA DAL SISTEMA TISSUEFLEX DI ANDRITZ, UNO SVILUPPO DEL METODO SHOE-PRESS NIPCOFLEX DI VOITH. Questa tecnologia può essere utilizzata per ottenere una serie di vantaggi: miglior tissue in termini di voluminosità e morbidezza, prezzo più vantaggioso a parità di qualità, o minore necessità di energia per l'asciugatura a parità di qualità di tissue. La qualità del prodotto non è pari a quella del tissue ottenuto con una macchina TAD, ma il consumo di energia è molto inferiore. Molte unità TissueFlex sono state riadattate a macchine tissue già esistenti, ma la prima su una macchina del tutto nuova è quella della LPC di Leicester, Regno Unito, stabilimento in crescente espansione. La PM è stata avviata l'anno scorso ed affianca la macchina da tissue Beloit installata nel 1998. Grazie alle prestazioni della prima macchina, la LPC ha ricevuto il premio 2001 Energia e Ambiente alla Papex Awards in riferimento alla bassa rumorosità e ad altre emissioni nell'ambiente. Sul fronte dell'energia, la cartiera ha il più basso consumo specifico di energia nel settore tissue britannico, meno di 14 GJ/tonnellata di prodotto.
Ci sono molte altre tecniche per ridurre l'uso di energia nel papermaking (produrre polpa a maggior consistenza, variare la velocità pompe/trasmissione, migliorare la gestione della rifinitura della polpa, ecc.) e insieme possono contribuire a determinare risparmi tanto quanto i miglioramenti nella sezione di essiccamento. Un buon esempio di cosa si possa ottenere con un impegno continuato lo offre una compagnia opposta alla LPC in termini di dimensioni. Kimberly-Clark ha fatto della riduzione dell'uso di energia uno dei suoi primi obiettivi ambientali fin dalla metà degli anni '90, quando si ripropose di raggiungere una riduzione del 10% (in termini di uso specifico di energia per tonnellata di prodotto) nel corso delle sue operazioni mondiali entro il 2000. Oltrepassò il limite di quasi il 2%, portando alla compagnia un risparmio sui costi annuali stimati di 50 milioni di dollari americani, e si è ora imposta un'ulteriore riduzione del 10% entro il 2005. Kimberly-Clark e LPC non sono soli in questo sforzo: molti altri produttori di carta stanno investendo grandi energie (umane) ed ingegno nel tentativo di ridurre la propria responsabilità nel consumo energetico e quindi le proprie emissioni di CO2. Dunque è possibile che vedremo la prima cartiera a carbonio zero prima di quanto si creda, ma il papermaking a consumo zero di energia per ora dobbiamo solo immaginarcelo.