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Le battaglie perdute

Due prestigiose opere vengono commissionate ai due maggiori artisti presenti a Firenze agli inizi del ‘500: la raffigurazione, nella Sala del Gran Consiglio a Palazzo Vecchio, di due grandi scene di battaglia. Nessuna delle due verrà portata a termine.

Giuliana Piutti


La Sala del Gran Consiglio. La gravissima crisi che si era aperta a Firenze nel 1494 con la cacciata di Pietro de’ Medici, signore della città, e che si era prolungata negli anni successivi dominati dall’invasata predicazione del frate domenicano Gerolamo Savonarola trova una sua ricomposizione agli inizi del ‘500. La repubblica raggiunge una sua stabilità soprattutto dopo l’elezione a Gonfaloniere di Giustizia, avvenuta nel 1502, di Pier Soderini, uomo stimatissinmo in città, che inaugura una politica di incremento delle arti volta ad accrescere il prestigio della nuova repubblica. Tra le varie iniziative da lui messe in atto sta la decorazione della Sala del Gran Consiglio, in Palazzo Vecchio, con dipinti storico celebrativi che raffiguravano imprese militari vittoriose conseguite dai fiorentini.


VENGONO COINVOLTI I DUE PIÙ IMPORTANTI ARTISTI PRESENTI A FIRENZE ALL’EPOCA: LEONARDO E MICHELANGELO. Al primo si affida la realizzazione della Battaglia di Anghiari, vinta dai fiorentini contro i Visconti nel 1440, al secondo quella della Battaglia di Cascina, vinta nel 1364 contro i pisani. La Sala era stata costruita tra il 1494 e il 1498 per ospitare il Consiglio Maggiore. Vasari, nella biografia dedicata all’architetto che l’aveva realizzata, la descrive come un ambiente a forma di trapezio. Sulla parete orientale, la più lunga, era collocata la tribuna, una loggia lignea architravata collocata al centro della parete, nella quale sedeva la Signoria, sommo organo politico costituita da otto Priori e dal Gonfaloniere di Giustizia. Ai suoi lati rimanevano libere due ampie porzioni di parete alte circa 7 metri e larghe 18, nelle quali si sarebbero dovute dipingere le due battaglie. Probabilmente lo spazio a destra viene assegnato a Leonardo, quello a sinistra a Michelangelo Oggi l’ambiente appare diverso, dopo l’intervento di Vasari che, nell’arco di un ventennio, dagli anni sessanta del ‘500, si occupò della ristrutturazione e decorazione dell’intera sala, seguendo un programma iconografico celebrativo delle gesta di casa Medici e, in particolare, di Cosimo I. Da allora la Sala del Gran Consiglio ha cambiato denominazione, prendendo il nome di Salone dei Cinquecento.


LA COMMISSIONE A LEONARDO. È del 4 maggio 1504 la delibera della Signoria che affida a Leonardo la realizzazione della Battaglia di Anghiari, nella quale si stabilisce anche che il pittore potesse iniziare a dipingere prima di aver terminato il cartone preparatorio. Ma già alla fine dell’anno precedente, tra l’ottobre e il dicembre del 1503, erano stati iniziati i lavori di messa in sicurezza dela Sala del Papa, nel convento di Santa Maria Novella, che doveva fungere da laboratorio per la preparazione del cartone e, dall’8 gennaio 1504, Leonardo appare in numerosi documenti che attestano dei pagamenti a suo favore e varie spese per il cantiere già avviato, tra cui quelle per la rea-lizzazione del cartone per il quale furono impiegati “una risma e 29 quaderni di fogli reali, per impastarlo 88 libbre di farina, per orlarlo un lenzuolo di tre teli”. Grazie a una nota di Leonardo stesso sappiamo con esattezza il giorno e l’ora dell’inizio dei lavori sulla parete della sala. “Addì di 6 giugno 1505, in venerdì al tocco delle 13 ore cominciai a colorire in Palazzo”. In quel momento Leonardo doveva , quindi, avere ben chiara la composizione della scena, costituita da più episodi distinti che, dai lati, confluivano verso il centro, dove viene rappresentata la “Lotta per lo stendardo”, l’unica porzione di pittura che verrà portata a termine. Ma, sicuramente, non aveva eseguito l’intero cartone, limitandosi ad elaborare il modello del solo episodio centrale, quello, appunto, dipinto sulla parete. I lavori proseguono , ma nel maggio del 1506 Leonardo chiede alla Signoria di Firenze il permesso di recarsi a Milano per tre mesi, interrompendo l’impresa. Da Milano chiede poi un’ulteriore proroga, che gli viene concessa e rientra a Firenze nell’1507.


RISALGONO A QUESTO PERIODO UNA SECONDA SERIE DI STUDI PREPARATORI che attestano l’ultimo ritorno dell’artista sulla composizione dell’opera per quanto riguarda le due parti laterali. Sul dipinto invece non interviene più e l’opera rimane incompiuta. Egualmente la Signoria, consapevole della sua importanza anche se non ultimata, il 30 aprile 1513, fa eseguire una struttura lignea di circa 25 metri per “armare [cioé proteggere, incorniciare] le figure dipinte nella Sala grande della guardia, di mano di Lionardo da Vinci, per difenderle che le non sieno guaste”. La tecnica con cui era stata realizzata e che si ricava dall’elenco documentato dei materiali usati e da varie testimonianze coeve, era quella dello “stucco” che prevedeva una specie d’imprimitura da stendere sul muro con una casseruola infuocata, che creava una base impermeabile, uno “stucco” appunto, su cui l’artista poteva poi dipingere ad olio come se stesse lavorando su una tavola, ottenendo così una maggior brillantezza cromatica rispetto al tradizionale affresco.


UNA TESTIMONIANZA PARTICOLARMENTE SIGNIFICATIVA a questo proposito è quella dell’Anonimo Gaddiano o Magliabechiano, autore di un testo redatto tra il 1537 e il 1542, dedicato ad opere ed artisti fiorentini coevi, nel quale si descrive la tecnica sperimentale messa in atto da Leonardo che prevedeva l’asciugatura dei colori attraverso un “gran fuoco di carboni”. Secondo questa fonte l’artista avrebbe fatto una prova su una tavoletta prima di applicare lo stesso procedimento tecnico su muro, che ebbe esito positivo. Per quanto riguarda il dipinto, invece, l’esperimento riuscì solo per la parte bassa, mentre per la parte alta “...per la distanza grande, non vi aggiunse il calore e colò”.


L’OPERA VIENE DESCRITTA DA UN ALTRO CONTEMPORANEO PAOLO GIOVIO, nella breve biografia dedicata a Leonardo collocabile nel terzo decennio del ‘500, “...magnifica ma sventuratamente incompiuta”. Essa rimarrà visibile per poco più di cinquant’anni sino alla ristrut-turazione realizzata da Vasari e, sebbene incompiuta e danneggiata, rimarrà sino a quella data una delle cose più interessanti da vedere in città. Lo indica esplicitamente una lettera del 17 agosto 1549 tramite la quale il fiorentinoAnton Francesco Doni elencava all’amico venezianoAlberto Lollio le cose più interessanti da vedere a Firenze, raccomandandosi di dare, in Palazzo Vecchio, “...una vista a un gruppo di cavalli e d’uomini, un pezzo di battaglia di Lionardo da Vinci, che vi parrà una cosa miracolosa”. Con l’intervento di Vasari la scena di Leonardo viene coperta dal grande affresco della Vittoria di Cosimo I a Marciano in Val di Chiana. All’opera sottostante, probabilmente coperta ma non distrutta, potrebbe alludere la formula “cerca trova” dipinta in bianco su un vessillo verde raffigurato nello sfondo dell’afffresco. Si ipotizza infatti che Vasari si sia limitato a coprire, senza distruggere, l’opera sottostante, come peraltro farà anche nel caso della Trinità dipinta da Masaccio nella chiesa di Santa Maria Novella, nascosta dietro l’altare da lui realizzato per la famiglia Capponi e recuperata nel 1860.


LA COMMISSIONE A MICHELANGELO. È nell’estate del 1504 che viene commissionata a Michelangelo, che aveva appena terminato il David marmoreo collocato all’ingresso di Palazzo Vecchio come emblema delle libertà repubblicane, la realizzazione della Battaglia di Cascina, probabilmente per la porzione della parete est della Sala del Gran Consiglio a sinistra della tribuna, quasi a sollecitare un confronto e una competizione tra i due artisti. Michelangelo realizzerà solamente il cartone preparatorio, in quanto agli inizi del 1505 si recherà a Roma, chiamato da Giulio II, per la realizzazione della propria monumentale tomba da collocarsi all’interno della basilica di San Pietro. Michelangelo sceglie di rappresentare non un momento della battaglia, ma la scena prima dello scontro, un evento dell’assolato luglio del 1364, desunto dalla Cronica del Villani, che riporta l’episodio dei soldati fiorentini sorpresi dall’attacco dei pisani, mentre, per difendersi dalla calura, si stavano rinfrescando nelle acque dell’Arno. Viene quindi rappresentato il momento in cui i fiorentini escono dal fiume e si armano, ribadendo, anche in quest’ opera, l’assoluta centralità del nudo maschile che accompagnerà l’artista lungo l’intero percorso della sua carriera.


I CARTONI. Non ci sono giunti i cartoni elaborati dai due artisti, ammirati, studiati, copiati a tal punto da venire presto distrutti. Sono però arrivate ai nostri giorni varie copie di entrambi. La copia più conosciuta di quello di Michelangelo, considerato subito, come dice Vasari, “piuttosto cosa divina che umana”, conservato in una sala dell’Ospedale dei Tintori in Sant’ Onofrio, poi portato in Santa Maria Novella e, infine, in Palazzo Medici e verosimilmente distrutto già entro il 1516, è quella realizzata da Aristotile da Sangallo. Egli ne aveva fatto una prima copia su cartone dalla quale, nel 1542, su suggerimento di Vasari, deriva “un quadro ad olio di chiaro scuro” (quindi non a colori, riproducendo l’effetto del cartone originario), da identificare con la tavola oggi nella collezione Leicester.


VASARI CI LASCIA UNA SUGGESTIVA DESCRIZIONE DELL’OPERA: “...si vedeva dalle divine mani di Michelangelo chi affrettare lo armarsi per dare aiuto a’ compagni, altri affibbiarsi la corazza e molti mettersi altre armi in dosso [...] e di stravaganti attitudini si scorgeva chi ritto, chi ginocchioni, o piegato o sospeso a giacere, et in aria attaccati con iscorti difficili”. L’artista enfatizza la rappresentazione dei vigorosi corpi nudi, individuati in torsioni impossibili, scorci mai visti, pose variate ed artificiose, in parte desunte dalla classicità e in parte ispirate al principio della “varietas”, in origine mutuato dalla cultura letteraria, ma ormai entrato nel linguaggio artistico più sperimentale. Su questo testo così innovativo, ormai lontano dall’equilibrio e dalla compostezza del linguaggio rinascimentale, si formerà un’ intera generazione di giovani artisti, tra i quali si devono almeno ricordare, tra i molti citati nelle Vite di Vasari, Raffaello, che soggiorna a Firenze dal 1504 al 1508, Andrea del Sarto, Pontormo, Rosso Fiorentino. Ma la fama del cartone, e presumibilmente anche una o più sue derivazioni, giungono sino a Venezia, dove Tiziano, all’inizio degli anni Venti, inserisce negli Andrii, uno dei quattro dipinti per il camerino del duca Alfonso d’Este, una figura desunta dall’opera del Buonarroti.


ANCHE BENVENUTO CELLINI, nei suoi scritti, e soprattutto nella propria autobiografia composta negli anni tra il 1558 e il 1566, ribadi-sce come, per la propria formazione, sia stata fondamentale la conoscenza delle opere fiorentine dell’ artista, in particolare della Battaglia di Cascina che descrive con queste parole “...quelle fanterie ignude [che] corrono a l’arme, e con tanti bei gesti, che mai né delli antichi, né d’altri moderni non si vidde opera che arrivassi a così alto segno”. Per lui tale opera era addirittura superiore alla volta della Cappella Sistina, realizzata dall’artista negli anni tra il 1508 e il 1512. “. Ed è proprio a Benvenuto Cellini che spetta la definizione di “scuola del mondo” attribuita sia al cartone di Michelangelo che a quello di Leonardo, per la loro esemplare funzione di modello innovativo per le nuove generazione di artisti.


ANCHE DELL’OPERA DI LEONARDO CI È RIMASTA TESTIMONIANZA. Numerose sono le copie, grafiche e pittoriche, pervenute ai nostri giorni, derivate o dal dipinto su muro, o dal cartone o dalla tavola sperimentale eseguita dal pittore. Il soggetto, in tutte le copie, presenta solo la parte centrale della scena, come si è visto l’unica ad essere completata e dipinta sulla parete: La lotta per lo stendardo. Molte sono le copie pittoriche a colori tra cui la cosiddetta copia degli Uffizi, la Tavola Doria e quella del museo Horne di Firenze, tutte cinquecentesche. Anche dopo la scomparsa del dipinto su muro e del cartone l’opera di Leonardo continua ad essere copiata grazie anche alla presenza del pannello su cui l’artista aveva provato la tecnica che avrebbe poi utilizzato, con i risultati deludenti di cui si è detto, sulla parete. E’ il caso dell’incisione di Lorenzo Zacchia che presenta in basso a destra un’iscrizione che lo esplicita, riportando anche il nome dell’autore e la data dell’esecuzione. Ma la copia più nota è quella disegnata da Rubens durante il suo soggiorno in Italia, nei primi anni del’600, tratta dall’incisione dello Zacchia, che, a sua volta, diverrà oggetto di ulteriori successive copie.


LA SCENA RAPPRESENTATA DA LEONARDO HA UNA CONNOTAZIONE ESPRESSIVA RADICALMENTE DIVERSA RISPETTO A QUELLA DI MICHE-LANGELO. In una sorta di condanna della follia della guerra, da lui definita”pazzia bestialissima”, viene presentato un groviglio di uomini e animali, evidenziando la violenza della zuffa e insistendo sulle alterazioni nelle fisionomie e umane e animali in modo esasperato, quasi parossisticamente sviluppando gli studi dei “moti dell’animo”, che caratterizzano l’intero percorso della sua ricerca artistica. (Si pensi alla studiatissima varietà d’espressioni con cui aveva rappresentato gli apostoli nel Cenacolo del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano, esprimenti le diverse reazioni alla frase appena pronunciata da Cristo, o all’ineffabile, sfuggentissima, indecifrabile espressione con cui rappresenta la celebre Gioconda).


LA VIOLENZA E L’IRA CHE DEFORMANO L’ESPRESSIONE DEI CONTENDENTI è più accentuata nei cavalieri milanesi, il nemico. In particolare, al centro della scena, Niccolò Piccinino, capitano delle truppe viscontee, con il braccio destro alzato ad impugnare una spada, quasi preda di istinti primordiali, esprime una straordinaria ferocia espressiva, ben testimoniata dallo studio preparatorio, conservato a Budapest, che presenta il solo volto di tre quarti. L’immagine corrisponde pienamente alle indicazioni leonardesche, contenute nel Libro di pittura relative alla rappresentazione dei vinti: “Farai li vinti e battuti pallidi, colle ciglia alte nella loro congiunzione, e la carne che resta sopra loro sia abbondante di dolenti crespe [...] le labbra arcate scoprano i denti di sopra, i denti spartiti in modo da gridare con lamento”. Espressivamente meno caricata e bestiale è, nello studio del medesimo museo, la rappresentazione di Giampaolo Orsini, comandante delle truppe fiorentine, identificabile con il guerriero all’estrema destra del gruppo.


LA SCENA EMANA UNA FORTE ENERGIA, quasi espandendosi nello spazio. Ogni figura è in torsione a costituire un inestricabile viluppo di corpi umani ed animali dove anche i cavalli partecipano al combattimento, lottando l’uno contro l’altro. Trionfano la bestialità scatenata e la violenza, esprimendo una visione assolutamente pessimistica dell’umanità, lontana dalla concezione eroica dell’uomo espressa nel Rinascimento. É, insieme a quella di Michelangelo, un’opera di rottura, che lascia alle spalle il mondo rinascimentale aprendo la strada al Manierismo. E anche l’opera di Leonardo, come ricorda Vasari nelle biografie dedicate a Raffaello, Andrea del Sarto e Morto da Feltre e Cellini nei suoi scritti, diventa, come quella di Michelangelo, oggetto di studio da parte delle successive generazioni di artisti. Entrambe “scuola del mondo”. *



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