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Benchmark: il contributo degli individui alla crescita delle aziende

Un mio conoscente tempo fa si scagliò contro il termine risorse umane definendolo poco rispettoso delle persone. A parer mio invece ha una valenza utilitaristica, alla base della cultura imprenditoriale occidentale, che valorizza le parti in gioco riconoscendo la profonda interazione tra di esse. Se cresce l’azienda cresce la persona, se cresce la persona cresce l’azienda.

Alessandro Mazzeranghi, MECQ S.r.l.


Dopo tante belle parole vediamo come si persegue e si potrebbe meglio perseguire questo interesse reciproco. La questione richiede grande attenzione per evitare sprechi dannosi per tutti.


I TALENTI INDIVIDUALI. Già il Vangelo affermava che non siamo tutti uguali, ognuno ha ricevuto talenti diversi, in misura diversa. Ognuno quindi sarà chiamato a dare frutti in proporzione ai talenti ricevuti. I talenti sono le capacità innate della persona. Ed è con l’esercizio e l’allenamento che le stesse vengono poi sviluppate ed affinate. Tutti i responsabili delle risorse umane conoscono bene questo concetto, e sanno trovare ad ogni individuo, con il suo bagaglio di capacità e conoscenze, la migliore collocazione all’interno della organizzazione aziendale. Ma da quel momento in poi l’individuo così ben collocato riduce il proprio contatto con l’ufficio risorse umane, e lo intensifica con il proprio capo o responsabile.


FARE EMERGERE I TALENTI. Se avessi scritto ciò che segue a fine anni ’80 sarei stato indicato come capitalista, nemico del proletariato e ancora tante altre cose che i più anziani agevolmente ricordano. Oggi invece è un concetto diffuso. E la crescita delle capacità e delle competenze del personale è argomento di interesse comune fra parte industriale e parte sindacale. Il titolo di questo paragrafo potrebbe essere: usare bene, e sviluppare, i talenti dei propri collaboratori. In un tempo in cui a tutti si richiede la massima flessibilità, quando capita una necessità imprevista ed estemporanea, è importante avere a disposizione “persone capaci”, in grado di sopperire alla mancanza di quelle “persone specializzate” che erano invece la risposta (la risorsa) industriale prima del 2000 (giusto per mettere un confine); risorsa perfetta ma presente con continuità al costo di organici ben più folti.

Là dove un tempo disponevamo di una gran quantità di specialisti, spesso sotto utilizzati, oggi abbiamo invece a disposizione poche persone capaci e flessibili che, in caso si manifestasse un problema improbabile ma possibile, devono riuscire a sospendere ciò che fanno abitualmente, per impegnare tutte le loro capacità e competenze nella risoluzione di quel problema. “Questa benedetta flessibilità” (parole di un lavoratore), riduce ovviamente i costi fissi ma richiede persone che abbiano “una testa diversa”; e qui nascono gli ostacoli e si mettono le basi per i fallimenti, per cui abbiamo già un esempio lampante della assoluta necessità di gestire e usare al meglio le risorse umane. Ma non è affatto detto che sia facile.


UNA QUESTIONE DI APPROCCIO? Certamente il primo passo è la selezione di quegli individui che per loro natura abbiano già una certa attitudine ad essere flessibili e a risolvere i problemi che gli si presentano più tramite il metodo che tramite la competenza specifica. Il secondo è il potenziamento di queste capacità, che possiamo definire “di problem solving”. E quindi emerge un cambiamento di approccio alla selezione del personale, non solo di quello destinato, subito o in futuro, a posizioni manageriali (dove la capacità di problem solving e la flessibilità dovrebbero essere capacità assolutamente indispensabili), ma anche di tutti i soggetti che dovranno svolgere il ruolo di capi intermedi. Selezionare non è difficile, non dovrebbe essere troppo complesso capire quali sono gli skill della persona da ricercare in sede di selezione di un soggetto destinato ad assumere una, anche piccola, responsabilità decisionale in questo nuovo contesto lavorativo. Difficile è, invece, fare emergere questi talenti innati portandoli ad un livello di efficacia adeguato.


VALUTARE LE POSSIBILI CONSEGUENZE DI UN ATTO: NON TUTTI LO SANNO FARE. Il tema centrale del problem solving o del decision making è: quali possono essere le conseguenze indesiderate di una determinata azione, che per il resto mi darebbe benefici? Chi ha una certa propensione al pensiero manageriale, tende a trovare facilmente soluzioni che consentono di perseguire efficacemente un determinato obiettivo; ma a quale prezzo? Spesso cadiamo nella imprecisa identificazione e valutazione delle possibili conseguenze indesiderate. Eppure dovremmo sapere che gran parte delle azioni possono avere anche conseguenze negative, e infatti molto spesso ragioniamo considerando il rapporto costi / benefici.

Quindi un costo esiste, ma per tale tendiamo a considerare solo il costo evidente e facilmente misurabile (per produrre un determinato documento devo impiegare sei ore di lavoro …), e non invece quelle parti di costo, non volute e non necessarie, ma che sono concretamente esistenti ed entrano nel computo se andiamo a ragionare sulle “possibili conseguenze indesiderate”. Possiamo fare un caso tipico legato al miglioramento continuo della produzione: una macchina operatrice ha frequenti inceppamenti perché monta un motore di vecchia concezione che impedisce regolazioni fini. L’intera macchina ha oltre venti anni di vita, compresa la parte elettrica della automazione industriale. A seguito di una analisi tecnica (ineccepibile) si considera che un azionamento moderno con controllo di velocità sarebbe in grado di migliorare le prestazioni della macchina e di risolvere gli inceppamenti. E quindi si procede, ma senza considerare che ci potrebbero essere questioni di compatibilità (anche solo a livello di programmazione) fra l’inverter allo stato dell’arte attuale e il vecchio PLC di comando della macchina; e così all’avvio … non si avvia nulla e si genera un bel danno per mancata produzione. In altri termini una conseguenza indesiderata di una azione apparentemente utile ha generato un danno inaspettato.


UN OBIETTIVO NELLO SVILUPPO DELLE RISORSE UMANE. Come forse avrete notato l’argomento delle conseguenze inaspettate e indesiderate dei nostri atti non è un tema così “popolare” nel mondo industriale; eppure molti dei peggiori incidenti industriali della storia nascono dalla incapacità di tenere conto proprio di queste conseguenze, da parte di individui per contro prudenti e diligenti. Pochissimi si rendono conto che spesso perdite catastrofiche si sarebbero potute evitare con un modo di ragionare diverso e più efficacie da parte degli stessi che hanno partecipato alla catena di errori alla base del disastro. Due casi classici: Bophal e Chernobyl. Non vogliamo qui affrontare il tema di grandi disastri, ma ragionare della delicatezza del tema della flessibilità oggi sempre più richiesta, e del problem solving assegnato a risorse diffuse nel contesto industriale. Che comporta risvolti complessi legati al modo di prendere le decisioni.


SPESSO DEFINIAMO LA CAPACITÀ DI PRENDERE DECISIONI COME CAPACITÀ MANAGERIALE, forse è improprio, in realtà dovrebbe essere una caratteristica umana diffusa e presente, più o meno accentuata, in tutte le persone adulte. Quando siamo bambini le nostre decisioni vengono verificate e corrette dai genitori, quando diventiamo adulti, almeno nella vita privata, dobbiamo necessariamente diventare autonomi. Ma sul lavoro non succede altrettanto, perché? Non pensiamo che la colpa sia delle persone, piuttosto è del sistema che induce le persone a ritenere che il loro ruolo sul lavoro sia quello di eseguire ordini senza porsi particolari dubbi. Forse avrei dovuto parlare al passato, ma in effetti la cultura diffusa in azienda, a tutti i livelli, pur con notevoli eccezioni, è ancora questa.

Quindi non si tratta di insegnare, ma di fare cambiare la percezione del lavoro, non formare, quindi, ma fare crescere la persona, la sua percezione del ruolo che svolge in azienda e, non in ultimo, la sua auto stima e la sua capacità di prendere su di sé le giuste responsabilità senza inutili e paralizzanti paure. E allora chiudo con una domanda: quanti lavoratori, specialisti, impiegati o dirigenti hanno davvero chiaro cosa la azienda si aspetta da loro, quanto viene ritenuto importante il loro compito (al di là della mera retribuzione), quanto è importante il loro contributo per garantire la sopravvivenza e la crescita della azienda? L’impressione, per lo meno in Europa, e nelle aziende come le nostre che non sono ad altissima tecnologia, è che pochi abbiano le idee chiare su questo delicatissimo tema. E quindi c’è davvero un grosso lavoro da fare, prima di tutto su iniziativa e commitment dell’alta direzione aziendale.



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