Jan-Benedict Steenkamp, Distinguished Professor di Marketing e Marketing Chairman presso l’Università della North Carolina, co-autore del noto libro Private Label Strategy: How to Meet the Store Brand Challenge, spiega il suo punto di vista sulla guerra tra brand e marchi privati.
Sebbene sia assolutamente convinto che la battaglia non sia finita per i brand, Steenkamp afferma che i produttori devono essere realisti e ammettere che le minacce che incombono sui loro brand sono probabilmente le più impegnative che abbiano mai affrontato. Per questo ci vogliono nuove strategie.
Jan-Benedict Steenkamp
Da numerose ricerche che ho condotto a livello globale sui brand dei produttori e i marchi dei distributori, sono convinto che i brand siano ancora forti, anche se tale forza varia molto a seconda della regione del mondo e della categoria di cui stiamo discutendo. D’altra parte, non c’è dubbio che i brand siano presi di mira. Guardando l’Europa, se consideriamo tutte le categorie di beni di largo consumo a rotazione elevata (Fast Moving Consumer Goods o FMCG), negli ultimi sei anni, dal 2006 al 2012, la quota dei marchi privati è salita dal 29% al 33,5%. Davvero un grosso cambiamento in un arco di tempo relativamente breve. Ciò indica un brusco calo in termini di fedeltà ai brand e credo che questo possa essere senz’altro legato alle condizioni economiche molto difficili in cui si trova l’Europa, le quali stanno cominciando ad apparire strutturali piuttosto che temporanee. Molte persone mi chiedono cosa possono fare i brand per difendere il proprio territorio. Non pretendo di fornire soluzioni facili, ma esistono sicuramente delle misure che i grandi brand manager possono adottare per mantenere tanto la quota di mercato quanto il differenziale di prezzo rispetto ai marchi privati. L’innovazione è un must assoluto. La prima cosa che penso debbano fare tutti i brand è innovare e rinnovarsi senza sosta. I consumatori non sono disposti a pagare senza motivo un prezzo più alto per i brand se la qualità non è superiore, e di molto! All’alternativa del marchio privato, la quale può arrivare a un 10% o 20% in meno o anche di più. Pertanto, se si ha un brand e non lo si rinnova costantemente per mantenere una qualità premium rispetto ai prodotti con marchio del distributore, si andrà incontro a grossi problemi con quel brand. Alcuni potrebbero dire che tutto ciò è ovvio. Al che io rispondo: ma se è così ovvio, perché non lo fanno? Mi dispiace dover ammettere che le innovazioni significative nel settore FMCG sono rare. Ho studiato l’argomento per molti anni ed è davvero difficile trovarne.
Sfruttare dimensioni e campo d’azione. Un’altra cosa che i principali brand globali o continentali devono fare bene è sfruttare le loro dimensioni e il loro campo d’azione. Alcuni dei brand leader a livello mondiale, come Gillette, hanno un’identità e una strategia del marchio comune in molti paesi e continenti. Gillette Mach 3 (fatturato 2,1 miliardi dollari), Gillette Fusion (1,6 miliardi dollari) e altri prodotti Gillette non dedicati alla rasatura, per es. i deodoranti, hanno un’incidenza enorme in termini di scala e scopo. Ciò che Gillette ha fatto nel settore cura della persona, sia maschile che femminile, è stato migliorare continuamente la qualità e introdurre autentiche innovazioni come Fusion. Ha investito molto in pubblicità attraverso intensive campagne promozionali sul piano globale. I marchi dei distributori non sono mai riusciti a eguagliare la qualità dei prodotti Gillette per la rasatura, quindi, anche se Gillette propone prodotti molto più costosi, sono comunque migliori e la gente continua a pagare per questo. Di conseguenza, l’azienda ha fatto leva sul proprio campo d’azione globale, che gli ha assicurato le risorse necessarie per poter riservare ingenti somme di denaro a innovazione e pubblicità, un ottimo esempio dell’importanza di investire in questi due ambiti.
Europa, il grande campo di battaglia. L’Europa è stata il più grande campo di battaglia tra brand e marchi privati. Tra le ragioni che spiegano perché i brand abbiano avuto vita tanto dura in Europa troviamo le difficili condizioni economiche dell’Eurozona, con un approccio nazionale al marketing ancora troppo frammentato e dei distributori davvero molto competitivi. Se si osserva la situazione a livello di paese, i marchi dei distributori sono forti come i brand più forti, se non addirittura più forti. Quasi tutti i mercati nazionali europei sono dominati da un operatore locale. Tesco realizza la gran parte del fatturato nel Regno Unito, Carrefour in Francia, Aldi, Lidl e Metro in Germania. Altri protagonisti sono Migros in Svizzera o ICA in Svezia. Nell’Europa dell’Est, non vi sono ancora operatori dominanti ed è proprio questo a conferire tanta forza ai brand in quella regione. I produttori sono riusciti a penetrare prima su quei mercati rispetto ai distributori e ciò li ha resi forti, sebbene anche qui stiamo assistendo a un cambiamento.
Pampers, un altro buon esempio. Un altro esempio di brand ben gestito e ben sfruttato sono i pannolini Pampers di Procter & Gamble. Incredibilmente, Pampers è il brand più importante di tutti in termini di vendite per P&G, generando un fatturato annuo di oltre 10 miliardi di dollari. Uno dei punti di forza che ha contribuito a farlo diventare un marchio da 10 miliardi di dollari è che il nome è unico in tutto il mondo. Ma esempi come questo sono molto rari e i brand non sono mai stati così tanto sotto pressione come lo sono oggi. Nel libro che abbiamo scritto, il tema trattato riguarda essenzialmente la mappatura del nuovo mondo dei marchi privati e cosa possono fare i brand per sopravvivere e prosperare in questo mondo. In realtà, per quanto bizzarro possa sembrare, io non sono pessimista rispetto ai brand dei produttori. Anche in Europa ho fiducia in una serie di potenti brand paneuropei, ben gestiti da mani estremamente capaci che stanno facendo un ottimo lavoro. Ariel ne è un buon esempio, e poi Pampers, Dove, forse anche migliore sarebbe L’Oreal. Nella categoria birre figurano alcune aziende davvero solide, come Heineken e Stella Artois, mentre l’alimentare sfodera i gelati Magnum e il caffè Nescafé, tutti brand paneuropei consolidati che, a mio parere, hanno un potenziale molto positivo per il futuro. A parte questi esempi, diamo ora uno sguardo più da vicino a quello che è successo in Germania negli ultimi anni. Nel periodo 2005-2012, che include diversi anni in cui la Germania ha attraversato tempi economicamente difficili, la quota di mercato dei marchi privati è cresciuta dal 32,8% al 37,9%, specie negli anni duri, il che conferma altre ricerche che ho condotto e che dimostrano che tali marchi crescono di più in periodi di crisi, sebbene i leader di mercato e i brand premium (ossia i marchi che vendono a un prezzo superiore a quello del leader di mercato) abbiano tenuto e addirittura visto la loro quota di mercato passare dal 26,2% al 28,5%. Ma allora, chi ha perso? I cosiddetti marchi intermedi, la cui quota di mercato è scesa dal 41,0% al 33,6%, un calo drammatico in un settore spesso etichettato come altamente stabile, con quote di mercato stazionarie. Ciò che non vedo assolutamente bene in Europa sono i brand nazionali diffusi in un solo paese, i quali non hanno le dimensioni, e spesso l’esperienza, adeguate per competere con i sofisticati rivenditori. Naturalmente ci sono alcuni esempi di forti brand locali e nazionali, marchiati a fuoco nella psiche dei consumatori di quella nazione, ma sono casi rari.
Denominatori comuni tra brand di successo. “Cos’hanno in comune queste storie di successo di brand paneuropei?”, mi chiedono. Vorrei riassumere dicendo che eccellono in innovazione continua, il che li aiuta a mantenere il gap qualitativo rispetto ai marchi privati, sono sostenuti da ingenti investimenti pubblicitari nonché gestiti dalle menti più brillanti ed esperte che si possano trovare, con un margine d’azione tale da poter investire nonché fare leva su esperienze paneuropee. L’apprendimento dalle esperienze di altre aziende, infatti, è una di quelle chiavi che, per esempio, può aiutare un manager in Slovacchia a capire quello che un manager in Spagna ha fatto per affrontare problemi molto simili. Non si tratta di reinventare la ruota ogni volta!
La pubblicità è ancora incredibilmente potente. Non possiamo non ammettere che la pubblicità sia ancora estremamente influente nel creare l’immagine di un brand. I manager devono lavorare con questo strumento unico per migliorare la forza dei loro brand continentali o addirittura globali. In genere, la pubblicità incide un po’ di più negli Stati Uniti di quanto non avvenga in Europa e le spiegazioni sono molto ovvie al riguardo. Negli Stati Uniti vi sono economie di scala e di scopo che coprono i costi per campagne pubblicitarie diffuse in tutti gli USA mentre in Europa, francamente, la maggior parte della pubblicità che si vede in giro è terribile perché pensata a uso esclusivo di un pubblico nazionale: è concepita a livello locale da soggetti locali con talenti e competenze locali, il che rende tutto molto limitato.
Ma questo è un paradosso perché da un lato si vuole adattare la pubblicità a un pubblico locale, dall’altra i paesi e mercati più piccoli non possono permettersi pubblicità di alto livello. A ciò si aggiunge il fatto che i marchi privati hanno una quota di mercato molto più alta rispetto ai brand in Europa, dunque i fondi da investire in pubblicità sono limitati. La pubblicità è spesso pagata in percentuale alle vendite e le vendite sono inferiori rispetto agli Stati Uniti, per esempio, dunque è difficile puntare a campagne di livello internazionale. Credo che le aziende leader dovrebbero mettere a punto campagne paneuropee pagate con fondi paneuropei, ma devono farlo in modo da concedere spazio a qualche adattamento ai vari paesi, se ciò è assolutamente necessario. E anche qui l’innovazione svolge un ruolo chiave. Gli studi dimostrano che pubblicizzare l’innovazione di un prodotto è sei volte più efficace che mantenere la pubblicità dei prodotti esistenti.
Non smettere mai di imparare. È assurdo che l’apprendimento sia tanto sottovalutato da alcune aziende. Molto spesso si crede che tutto sia diverso nei diversi paesi. Invece di limitarsi ad accettare questo e a cercare di lavorarci su, per un’azienda intelligente è molto più importante capire cosa si può imparare gli uni dagli altri perché, alla fine, gli elementi in comune sono tanti. Non sto dicendo che tutto è uguale, ma ci sono un gran numero di affinità spesso trascurate dalle realtà meno inclini a un “interapprendimento”. Le aziende dei brand paneuropei più forti stanno lavorando attivamente per migliorare le esperienze di apprendimento a livello transnazionale. Se qualcuno, da qualche parte, pensa di sapere già tutto e di non avere bisogno di imparare più nulla, può anche andare a casa: per loro la partita è già finita. *